Ho bruciato il ritratto
di Dorian
Ho schiodato Maddalena
Ho liberato l’agnello
Ho vomitato le lucertole
Ora il lupo viaggia tra le pecore senza travestimento
Ho bruciato il film
Ho versato la melassa nel lavandino
Ho massaggiato la mia bocca col miele
Perché le lacrime non generino più fantasmi
Sono il paesaggio dopo la grandine
non manca niente
ma quello che c’è è frammentato
disperso separato
Sono il paesaggio dopo la bufera
pensieri strappati via
e portati lontano
Sono il paesaggio dopo la siccità
pensieri polverosi e disidratati
che impastano la bocca e le pupille
Sono il paesaggio imbiancato
che attende sotto un morbido cuscino
il risveglio dell’anima.
Mi chiamo Gray
sono stato George
sono stato Dorian
aculei sul cuore
e nel cervello
paure sopite
ritrovate in cornice
scuciture della vita
per me ora
solo la danza.
Uomo con un pugno di mosche
hai aperto la mano
e sul tuo palmo
solo solchi
senza seme.
Canto di Sirene
nella testa
canto mellifluo
canto melato
canto adatto a riempire
la vanità
Sirene incanto
del canto
Sirene che urlano
Sirene che straziano
la mia immaginazione
Fattura malia dolore
incanto licitazione
Sirene nenia
sortilegio per i sensi in allarme
Sirene di Varèse
incantamento dell’anima
Sirene voce seducente al telefono
che si insinua e stordisce
Sirene metà donna metà pesce
Dovrò friggervi nell’olio
della mia indifferenza.
Le divinità azteche
del mio camino
vibrano alla danza dei lapilli
mani devote le sfiorano
in una carezza che consuma.
Mi hai regalato
un foglio e i colori
tutti i colori del buio
hai detto disegna la vita
la vita
il sibilo del nastro che
più non avanza
la testa del figlio mozzata
brandelli sulle rotaie
Annuška ha di già versato l’olio
e tu col sacchetto
che ricomponi quel puzzle
fuori la pioggia rimarca
l’invFerno del nostro trasalimento
un pensiero mi attraversa la vita
cammina fedele al mio fianco
il coccodrillo ha ingoiato se stesso
la tigre divorerà il buio.
Salomone dal suo regno monferrino
decretò “dividetelo„
e l’androgino fu spezzato
i mangiatori di bolo scioperarono
chiedevano sempre di più
ora volevano il chimo
e dall’occhio del ciclone io
spargevo energia
da raccattarsi a piene mani
ma nel centro
solo la paura del quotidiano.
Hai svolazzato attratto
dal cero acceso
dell’ipocrisia
un bagliore e
le tue ali
sono andate in fumo
hai cambiato vita
ti aggiri su
pavimenti polverosi
senza un’ipotesi di volo.
Grimilde è tornata allo specchio
ha visto se stessa sconfitta
è l’altra che ha vinto la gara
a nulla le è valsa la sua intelligenza
né il magico che la circonda
un’ultima pozione
ora prepara per sé.
estirpando le erbacce del giardino
ho pensato ancora a te
forse sei stata l’erba cattiva
autoseminante
ho pensato a te mentre ti occupi
delle tue sterili ortensie
nel piatto deserto delle nebbie
al tuo gatto castrato che
ironia della sorte, hai chiamato
tigre
anche tu tigre castrata
nell’animo e nel fisico
per aver sposata
la comoda ipocrisia
amante azzurrina celata dietro
un cristallo
visione distorta del mondo
dal tuo quieto acquario privo di onde
anelare all’infinito
sbattendo le pinne nelle pareti
nuotando verso la superficie
al minimo avvicinarsi d’ombre
vorrei rompere quel vetro
disperderti nel mare
non pensarti più
ma sei un animale domestico
vivresti nella pozza d’acqua
sul pavimento
trasformeresti le tue branchie in narici
ho sognato il lupo cronos e non mi ha morso
ho steso la mano e lui docile
si è fatto accarezzare
il tuo codiceasbarre dice tre per due
hai amato l’androgino
ne hai costruito uno siamese
ma il coltello del chirurgo
ha tagliate via
le parti senza speranza
l’animale oscuro si è presentato
al mio cancello
immobile nella fissità della notte
ho incontrato i suoi occhi luminescenti
ho nuotato sotto la sua palpebra
per conoscere il suo segreto.
Come parca parca,
non hai tagliato il filo,
ma lo hai sfilacciato con costanza
fino alla lenta consunzione
tenendo in sospensione il tonfo.
Sei la melassa che incolla al doloroso nulla
uomo di mobili sentimenti.
Io fuggita dal letto di Procuste
mi sono trovata sola
perché tutti memori di quella conveniente passione
hanno continuato ad adorarlo.
Ho filato con la seta
un bozzolo intorno a me,
l’ho fatto aderire al mio corpo
una morbida protezione.
Ma così avvolta sono stata facile preda del ragno
che mi ha trovata già confezionata
per il suo lauto pasto.
I fili delle mie ansie
hanno tessuta una coperta
che falsa protezione
si estende sul mio mondo.
Facile allo strappo
si trasforma in legacci
che bloccano gli arti della mia volontà
su una distesa color del tedio.
Una cartolina ed un bicchiere
per la mia salvezza.
La mano guida che accompagna il gesto
verso la mia libertà
ha dita sottili e diafane,
toccherà la creta che dal muro
genera hagodai,
e potrò sfuggire ai miei inseguitori.
I poi divennero mai
e scivolai dalla scala dei se
sprofondai
nell’abisso dei forse
come pulce nell’acqua
a cercare una riva
un ucronico moto ondoso
a cullare la fissità del pensiero
il pensiero
che genera, nutre, accarezza
mostri
le valigie già pronte
ricolme di frasi
e l’eco di tutte quelle
parole melate
buone per avvolgere cioccolato
tra stelle e sudori.
tutto si è spostato
un prima un dopo un non più
e l’acqua lambisce
le labbra ormai viola
di Ofelia appena riemersa.
la luna di Natale faceva impallidire il mondo,
avvolto in un pericoloso silenzio
un mondo senza voce
troppe le parole sprecate, tritate,
digerite, vomitate, disciolte nell’acqua e ribevute
mozze insegne al neon, incapaci di creare
prive del fuoco generatore
spedite a indirizzi inesistenti, anche il mittente lo è
raccolte in fasci e gettate ad ardere
senza nessuno da riscaldare
parole in galaverna senza possibilità di disgelo
parole da curare accudire da proteggere
da disperdere alla rossa luna d’agosto
per far rinascere le voci ancora assopite.
uccisa da un’eclissi
ho versato l’inchiostro
sulla parola divina
così persi la mia
cercarono di riempire
la mia bocca con le loro,
ordite di consueto, scontate
anche io scontata,
comunque presente
e di valore nullo
ho camminato su distese di mercurio
che ad ogni passo si divideva
mostrandomi l’abisso
le troppe scarpe strette
mi hanno ridata la voce
e le parole nella mia bocca
si sono moltiplicate
l’eclissi torna sempre,
compagna del mio viaggio
si annuncia con brivido freddo
e passi di neve
congela il mondo
in un istante livido
poi lenta riparte e torna la luce.
vestita del tepore del sonno
il mio viso avvolto nei pensieri
porto al collo una collana d’aglio
per metter in fuga
gli spettri dell’animo.
hanno danzato tutta la notte
festosi al loro satanico convegno
si sono sfiniti per mostrarmi
la mia verità
hanno cucito per me
un abito di cocci di bottiglia
bellissimo e scintillante
così ammantata percorro la mia via.
Questo si vede
da dentro un bicchiere bagnato:
l’immagine della Madonna
convive col duo di chitarre,
la scultura di sassi e di spago
contende lo spazio sbiadito
al quadro di “cascata cinese” ormai spenta,
l’anarchia e la religiosità che occhieggiano
da dietro il bancone
ritinto nel verde nel fucsia ed azzurro,
coprendo quel legno
colore degli anni trascorsi,
azzurro è pure il rosario
di plastica e non di zaffiro,
che unisce il suo mesto destino,
alla medaglia del santo in rame del diavolo
che pende dalla parete.
la parete che ruba alla stanza dei piccoli
i fiori multicolori
luce nell’atmosfera cupa,
cupa la decorazione natalizia
caduta dietro il pianoforte chiuso
rimasta lì a guardar con invidia,
il calendario dell’avvento
ancora appeso a quel muro,
l’estinto estintore accanto alla stufa
ricerca quel fuoco che mai ha incontrato
l’Assunta Maria,
sorridente ed anarchica,
cinta di domestico alluminio,
il rosso cuore spinato di compagna,
offre la sua misericordia agli avventori
che bevono quel sangue divino,
nei loro bicchieri di osteria
e giù giù nel fondo
il dolce ricordo di Guido.
quattro tocchi
è l’ora del lupo
implacabile arriva
siede accanto al mio letto
pronto a dare inizio al suo pasto
divora i miei visceri
con lenta voracità
mastica con delicatezza
dalle carni lacerate affiorano
parole
parole che si moltiplicano
si accoppiano,
si riproducono a migliaia, e si ricombinano
ricreano percorsi, accadimenti
si rimischiano e scrivono
sceneggiature, partoriscono mostri,
compilano archivi infiniti,
tutti tasselli a incastro
gigantesche parole d’acciaio
pronte a schiacciare l’insetto
parole morsa, parole gabbia,
parole formalina
parole impresse su pellicola
che la luce del sole
annerirà al mattino
accanto ai ciuffi grigi
del pelo del lupo.
le tue mani pallide
hanno imbiancati troppi sepolcri
sotto le mie unghie c’è terra
l’ho scavata per costruire la mia tana
che con fatica
ho resa impermeabile
all’umido stillicidio della menzogna
che può marcirne le fondamenta
ho protetta contro il freddo dell’ipocrisia
che si insinua e ammala
ho isolata dalla mala aria
che si propaga di bocca in bocca
fino ad ammorbare la vita
ho riempita di cibo per l’anima
per la mia sopravvivenza
la tua calce qui non ha futuro
ma le tue mani ne serberanno
il ricordo per sempre.
Voglio catturare l’aria
chiuderla in barattoli per i momenti bui
l’aria piena di canti del mattino
l’aria del frinire delle cicale
l’aria dello stridire delle civette
respirarla quando il fiato sarà corto
l’aria di luna
l’aria di noi
l’aria di perdersi
l’aria lontana di Milano
l’aria del buio di un cinema polveroso
l’aria di “si domani”
l’aria dei ritorni
l’aria di pioggia tanto amata
l’aria delle parole speciali
l’aria delle attese
l’aria degli abbracci
l’aria dell’insieme per mano arriveremo lontano
l’aria pungente dell’inverno avvolti in un unico caldo cappotto
l’aria della contestazione
l’aria della partecipazione
l’aria dei basta
l’aria dei no
l’aria di quando mi mancava l’aria
poi arrivavi tu che eri la mia aria
un giorno poi
aprirò questi barattoli tutti assieme
e prolungherò la mia vita
di un breve attimo.
Aurora ha ceduto il passo
a Melancolia
che sicura e sinuosa
si è installata
sul suo trono di freddo cristallo
lei, regina indiscussa del giorno.
Ed io, sono scivolata
su tappeti di perle
ho chiesto protezione alla vergine
la vergine di Norimberga
per il mio esorcismo.
Ho portato con me
pile di piatti sporchi
l’unto sulle mie mani
non si cancella,
emana l’odore di pesanti fardelli
cibi guasti, insipidi, indigesti,
zuccherini alla nausea.
La mia dimora si affaccia su uno spazio immenso
da percorrere a piedi nudi
camminando su vetri che il mare
ha smussato
e dolori che il tempo
ha acuito.
Il tempo tassidermista
cuce e rattoppa
ma l’occhio vitreo
scivola, torna
a guardare il cielo
il cielo si appoggia
alla mia guancia
nel vetro liquido
di una finestra
e il treno
porta con se un passeggero
sempre sgradito
che scende ad ogni stazione
dell’attesa
il temporale della mia mente
inzuppa i nostri destini
li scioglie li ricombina
col muschio della memoria
fioriscono filatteri
ai piedi del kaki
parole luminose
che come coltelli tagliano
il nero per un “forse domani”
l’anello dell’inganno
è scivolato dal mio dito
tutte le sue gemme sono cadute
rimane un cerchio
di scuro metallo
che sparirà
inghiottito dal buio.
La vita ci ha presi alla gola
cercando di farci inghiottire il suo miele.
Lo abbiamo sputato era veleno,
non c’erano antidoti alla ribellione
nessun farmaco poteva
salvare il paziente dalla sua libertà.
Isolare era la parola d’ordine.
Ed eccoci quà nel nostro mondo di vetro
in cui scende la neve
un caldo abbraccio lo appanna.
Non è questa la verità,
la sfera si è rotta
e l’androgino si dibatte
soffocando tra i cocci.
Il mio cane metafisico
è fuggito via,
era stanco di fermarsi
a semafori imposti
ed ora io tasto la realtà
con dita titubanti
le faccio scorrere su ruvidità che graffiano,
velluti che adulano, liquidi scivolosi.
Quando il mio cane metafisico
farà ritorno
leccherà i miei occhi,
guarirò e tornerò a vedere.
Fianco a fianco riprenderemo il cammino.
La chiesa ortodossa,
le ostie, le birre
le risa barocche
nel tetro sacrario.
Ma è l’arte che spegne
che annulla
e confonde i commercialisti
e qual cruccio ha reuccio se non i suoi ragni.
Le dame del lago
han bruciato le torte
e il fumo che ancor lento sale,
dai tuoi candelabri del mercoledì
e Otello abbronzato dal sole del Sud
che intona per noi
i suoi canti tediosi
e l’acqua che scorre che sale e risana
battezza quei suoni
vetusti e lontani.
L’aracnide salvo
mi scrive ogni anno,
conserva il sudario ora sua installazione
nel grande museo degli errori.
E il tempo zampilla, scorre e trascorre
scolora quel buio da non ricordare.
Stanca di troppe sepolture
ho le unghie spezzate
per aver scavato quella terra
che ha inghiottito i
“da ora in poi tutto cambierà”
L’erba ricresce rigogliosa
ma temporanea.
Ho le mani del contadino
ma non il suo abito della festa.
Sono il pianoforte preparato
ogni nota sarà per te
sorpresa e spaesamento
ma la voltapagine
torna sempre all’intro.
Ho saltato gli oracoli
ululano ciechi nella notte
alle mie spalle
verità inconfutabili
non li voglio ascoltare.
Abbraccio il mio albero da compagnia
sotto le sue fronde
ricompongo la mia vita.
Ho riempito la stanza
di un denso silenzio amniotico
solo le parole del legno
raggiungono il mio orecchio metafisico
sussurrano di echi abitati
mi volto e mi rivolto nella percezione.
Ho attraversato le pagine bianche
camminando sull’imperfetto filo nero
cadendo ad ogni a capo
per risalire poi come lepisma
suggendo il propoli dell’altrui sentito
ambrosia per l’equilibrio dei quattro
melata per la creazione
lento digerire d’immagini
armonia e accordo tra i suoni
di quelle corde gialle, rosse, bianche e nere
brace di pensieri
pronta a rigurgitare parole
da fissare
sull’imperfetto filo nero.
Da bambina non avevo l’ombra
me la disegnavano a loro piacimento
corta e sottile per la gioia
allungata scura e pesante per i doveri
e fu così che
all’antica bancarella dei giocattoli
desiderai i cubi di Fröbel
ma tu scegliesti per me
il mulino ad acqua.
Ricreai il mio mondo
alle spalle di una bergère
nelle orecchie i suoni violenti
negli occhi i lampi
l’odore della polvere da sparo nelle narici
fu la mia guerra
non permisi più a nessuno
di scegliere per me mulini ad acqua
ora amo la mia ombra
cammina innanzi a me senza indugio
il sole alle mie spalle
la definisce netta
mi precede aprendomi la strada
e se si stanca
mi segue da vicino
si, è vero, la possono calpestare
ma scivola via
e come mercurio si ricongiunge a me
in un indissolubile abbraccio.
Siamo pezzi di carne
che animano la terra
pezzi di carne che fagocitano
altri pezzi di carne
in un gioco infinito di forme.
In un giorno di malessere
abbiamo conosciuto l’anima
ci siamo sporti ed abbiamo guardato dentro
sulle facciate dei palazzi
le finestre erano frammenti di pellicola
su cui scorreva la vita
noi valigie vuote
come grandi bocche
che non sono riuscite
a trattenere il nutrimento.
In un giorno di noia
abbiamo contratta un’amicizia
e nel buio di una sala
con la musica che avanza
colpisce, rimbalza, affonda
cresce la smania di esistere
ed è così che come un cacciatore
impugno la mia arma
ne soppeso la stabilità
mi acquatto nel quotidiano e miro
la mia mente attraverso il mio occhio
penetra nel cuore, cattura l’anima
e la restituisce in materia.
Ma l’ora del lupo non ha più ora
forse l’avvicinarsi repentino dell’inverno
ha reso il lupo famelico
sempre in agguato
pronto ad azzannare
lascia sul suo percorso
piccoli bocconi seppelliti
che dissotterrerà al primo languore.
Del suo passaggio restano i graffi nella corteccia
le tracce nella neve
le delimitazioni olfattive
segno del suo possesso.
Io gli appartengo.
Ho vuotato cassetti di rabbia, sopra il letto
per districarne e separarne il contenuto.
La rabbia dei banchi di scuola
dove il disagio si faceva gabbia, scudo, armatura
muro irto di cocci.
La rabbia degli affetti che circondano il mondo di impotenza,
legano i polsi con stringhe
appiccicose come ragnatele
vestite da zucchero filato.
La rabbia di non aver fermato l’attimo
e riviverne sempre il momento che lo precede.
La rabbia del volo mancato
quando i piedi stanno per staccarsi dal terreno
ma il sasso che porti in te
ti fa ricadere.
La rabbia di un giorno di luglio
quando il tuo mondo doveva finire
rubato da un’eclissi.
La rabbia di aver perso l’identità
vivere dentro una scatola
guardare il mondo da una fessura.
La rabbia da guidare, accompagnare
tramutare in energia, far esplodere
lasciar fluire senza gabbie
disciogliere nell’acqua limpida di un torrente
diluire nell’aria pungente dell’inverno.
Una lama di luna
illumina lo spiazzo
davanti alla mia coscienza
La mia fragile casa di cartone
cede alle zampate del lupo.
Sono di nuovo le quattro
un refolo fuggito da uno spiraglio
taglia il tepore della stanza.
L’onda anomala dell’anima
disseppellisce e spiaggia i detriti
ancor così privi di ruggine
protetti da anodi sacrificali indistruttibili.
Passeggio sulla riva e li raccolgo
Li catalogherò in polverose bacheche
li analizzerò con il distacco
e la giusta precisione dell’entomologo necroforo
che studia i corpi morti di un museo.
L’odore decadente del tuo shampoo
attraversava la stanza
ricordo di cimiteri
di fiori lasciati a decomporsi
in vetusti saloni visitati dalla polvere.
Trame di luce che feriscono gli occhi
decolorando il passato.
Aprire il sarcofago,
polverizzare l’inutile storia.
Pareti bianche da ritinteggiare.
Da buon ebanista ricreare l’intarsio
tassello per tassello
piccoli pezzi per il grande mosaico.
Schegge uscì dalla tenda sudatoria
mi consegnò tre ornamenti
“tu sai chi ne ha bisogno”
aggiunse.
A te consegnai il castoro
doveva portarti in alto
salire nel raggiungimento della tua spiritualità.
Ti sei accontentato di scalare palazzi
sei giunto al primo piano
hai detto
“questo è per sempre”
e così è stato
una lunga scala porta ora alla tua disadorna dimora.
A te portai l’alce
ti doveva temprare sul sentiero della vita
chiudere le tue orecchie alla calunnia
tracciarti una strada di luce
non l’hai amata
l’hai tradita
sola si è ritirata nel suo bosco.
Tenni per me il cervo
io e lui ogni mattina apriamo gli occhi, annusiamo l’aria
sappiamo che sarà un altro giorno di combattimento
contiamo i colpi col mondo e ogni giorno liberiamo
un piccolo pezzo di terra.
Il tempo
è uno zaino che ti porti appresso,
ricolmo di oggetti
che sono memoria.
Occorre svuotare il contenuto
per alleggerirne un po' il peso.
Ma alleggerirne il peso
non significa dimenticare,
significa creare uno spazio più ampio
per un allestimento di vita
da visitarsi ogni giorno
ma da non trasportare sempre sulle spalle.
L’astro spinse l’anta ed entrò
sommò il suo candore al foglio
disegnò l’ombra della matita
scrisse la storia di demoni
imprigionati dentro bicchieri
generati da sudori, febbri e deliri
ora imploranti la grazia per dissolversi.
L’alba è arrivata tra la spossatezza e il sonno
quel viatico invocato nel buio
tra lampi e adrenalina.
La casa preoccupata ha tinto le sue pareti
col verderame inattaccabile dall’insetto
ed ecco la somma di tutti gli specchi rotti
il rumore del sale calpestato
in un infuocato pomeriggio di apprensione.
L’ingenuità del pesce gli è costata un mare.
Le porte della notte si sono aperte a far entrare la luce
che come acqua è scivolata sul pavimento
ha incontrato il muro
ed è salita lungo la parete.
Il sogno forte il sogno audace e tagliente
ha lasciato sulla mia lingua il sapore del sale
e nelle mie pupille le crepe dei muri.
Ho confuso l’ara con il piedistallo,
ho sentito fender l’aria
la mano del dilettante, ha azzoppato il capro.
Quali sirene hanno portato il tuo
veliero di carta leggera
a navigare dove onde burrascose
hanno cancellata la parola
e la promessa
ora è il vento nei camini che ulula i suoi lamenti
canta di porte sbattute a sua insaputa
di finestre lasciate aperte per troppo tempo
di case in balia dei suoi sussurri.
il telefono su cui compongo il numero
cambia le cifre ad ogni ruotar di disco
è la macchina dell’impotenza
che con ghigno feroce
annuncia la sua sfacciata vittoria.
Il budda serafico e dorato
antico protettore
chiede protezione alla domestica pellicola
anche egli ormai cibo in vetrina
forse un converso cristiano
gli anelli del bulgaro dal sorriso aperto
tintinnano e scintillano come il dente d’oro
del venditore di rame
nel sole di un mattino pasquale
nel polveroso aprile della mia infanzia
la Lamo canta al suono
del sacro tamburo julienne
un fumo di offerte al dio del mezzogiorno
confonde il tassista in attesa del caldo turibolo fumante
bambini festosi fermati nel balzo
dalle impunture d’oro a limitarne il mondo
fissato alla parete
e al vento tocca il richiamo
dar voce per tutto il quartiere
l’odore della vita racchiusa in un piccolo scrigno
ed ecco il ritorno di Guido.
L’estate gravida di promesse
è passata perdendo i suoi cuccioli morti
e già la neve ricopriva le scale i tavoli gli armadi
col su manto salino e secco
il sonno tatuava segni magici sul mio corpo
e la paura di non aver paura
iniziava ad annegare le mie giornate
tu tornavi dal tuo medioevo
camminando su un foglio bianco
tappeto che non nutriva le parole
solo fruscii di vuoto
io prigioniera dei poi
uccidevo l’incanto della creazione
ma l’albero esiste a prescindere
dalla classificazione del botanico.
Un suono di marimba
le dita leggere del fuoco
percuotono la cavità del legno
un’enorme balena ingoiò la marimba
e le sottili dita incandescenti
arpeggiarono i suoi fanoni
e i ghiacci han cozzato con fragore
possenti scricchiolii infuocati
aurore boreali dentro al tubo
farfalle sparpagliate a primavera
veli di anacronistiche vestali in danza
e un treno che tra fumi corre via
una murena appare dal profondo
nasconde il suo corpo nelle ceneri
dalle ceneri come fenice rinasce la manta
e ancora dal profondo appare un dio
grifagno con occhio ardente
a pretender vergini danzanti
ed estinguersi con loro nel suo fumo.
L’inchiostro nero della notte
scivola via dal vetro della finestra
battaglia di ombre
vinta dallo spettro del mio mattino
che candido imbianca il mio risveglio
afferro la coperta delle brume
e trattengo in me il sogno
la pioggia continua ad allagare i nostri pensieri
sciogliendoci la memoria
in bicchieri un po’ torbidi
del sale del perdono
il passato giace in urne trasparenti
poveri soprammobili di cattivo gusto
che la polvere non vuole ricoprire
l’insetto ingannato vuol suggere
quei fiori di vecchio tessuto dorato
la strada paesaggio antico
non prende coscienza
e libera le sue piccole matrioske a corda
che ondeggiano veloci
verso il sacrario del venerdì.
Il paese degli equivoci
ha messo a segno un altro colpo:
il suo linguaggio mozzo di manleva.
E ai piedi dell’albero crescono i talenti
e per il resto basta chiedere.
La radiocattedrale dall’alto della sua colonna
assolveva i nostri giorni veniali
inducendoci al mantra del quotidiano
snocciolare i 365 grani
per l’indulgenza ratealizzata
Gonzalo è mio fratello,
riflettiamo nello stesso specchio
il nostro sguardo carezzevole divampa
adrenalina sporca di sudore.
E il pensiero mise bocca
tra il sonno e la veglia
ho abbracciato filari di parole
La luna insegue il suo sampa
sul mare di carta secco
nel caldo abbraccio di una lampadina
E un ignorare perverso pervaso dall’invidia
ruota sul paesaggio attonito
piccole braci di consapevolezza
erodono l’ipocrisia dell’incanto,
un cartone su disegno d’altri
effimero e infiammabile.
Le mie bottiglie sono tornate indietro
ed io seduta al telaio, notte e giorno,
ho tessuto la trama
per l’intarsio delle anime.
Dall’alto del mio armadio da lettura
guardo laggiù il mondo,
giocattolo piccolo e affrontabile.
Ho raccolto il chiaro di luna
per brindare al capitano
di una nave arenata,
che l’onda sfiora ma più non muove
se pur di legno leggero per navigare.
La loro isola caraibica
aveva gambe nere e lucide,
un panno consunto e sgualcito,
nelle loro bibite d’antan
non c’era ombrellino,
attaccati a quel lembo verde si tenevano a galla
nella calma piatta del quotidiano.
Ed ancora li ho visti avulsi camminare
per strade buie e rumorose
con il cuore nei loro sacchetti
come fosse cibo per gatti,
ventagli di carta stagnola
tra febbri, attese e Natale.
Ed ora ti chiedo,
seppellisci il tuo rosario di nòccioli
perché si possa compiere
la preghiera della vita.
Le luci di Natale gridano
le une contro le altre
i loro dissapori condominiali
Avvento di un Natale isterico
I giorni di Natale, satolli di cibi cucinati per giorni
come i ricordi amalgamati alle dimenticanze
alle speranze disattese ad inacidire
come il vino conservato troppo a lungo
e mai bevuto
Giorni scomodi da superare
da confondere con la fretta
Poter fermare quella luce alla finestra
che fa tramontare la vita
nella ripetizione del gesto
non più rito né celebrazione
solo abitudine scolpita nella pelle.
Ho odiato quell’uomo che venuto da lontano
portava regole d’altri mari
la sua nave ha fatto ammutinare
il timone ai flutti
solo l’asse ricoperta di Kelp
ha dato la salvezza al naufrago.
Ho odiato quell’uomo che ha permesso
che la sua ironia si disperdesse con lui
per deserti di pulviscolo lanuginoso
e di luce che offende gli occhi.
Ho odiato quell’uomo per la sua disarmante ingenuità
l’ipocrisia malcelata in cerca di espiazione.
La mia stella cadente è tornata indietro.
Noi siamesi in cerca di un bisturi
carne unita alla carne, sangue unito al sangue
Una fascia sfilacciata e putrida che non vuole strapparsi.
E la vita scende dai polsi ad inzuppare il tappeto
È il suono della battaglia ormai persa
Lame di parole affilate, hanno decapitati i giorni.
Una falena sbatte nel ricordo della luce,
danza al ritmo di piedi troppo vicini e ciechi
Piena di me
fingo una modestia ben celata
sette veli a coprire l’arroganza
Rosa di Gerico in attesa,
cattedrale che poteva ergersi
ma un vento portò via le sicurezze
strappò gli appigli
Davanti allo spiazzo della mia coscienza
si muovono figure fumose e sottili
illuminate da un fioco filamento
e su sottili zampa d’elefante daliniano
porto il peso del non detto
Mentre l’impotenza
scioglieva le sue mani di pece sui nostri destini
ho apparecchiato il tetto per cibarmi di nuvole.
Gli ingannevoli riflessi del vetro
e la città di Morgana
nella livida luce dell’inverno
che cola lenta sui davanzali
il cielo nutre ancora le sue stelle
con il latte della sua via
il campanile ha urlato l’inizio della battaglia.
Fantasmi schierati pronti al combattimento
bussano ai vetri illuminati dall’astro dei poeti.
Nell’Olimpo dei velieri naufragati
scivola leggera una barchetta di parole.
Ho aperto il mio quaderno rupestre
pronta impugno la selce per realizzare il desiderio.
Ci ha visitati l’angelo
ed è nata in noi la creazione
gravidi del nostro sentire
pronti al nostro Natale
trasformare la grotta
in reggia
qui dove il silenzio,
il sale, la musica
hanno inzuppati i muri
il frutto del seno nostro
per l’altrui catarsi
e poi la musica delle rotaie corrusche
e la gabbia con la bocca spalancata
che grida il dolore
di aver perso
i suoi prigionieri
Aprii l’anta e ripresero a respirare
Il raglio strozzato dell’asino
che vomita solo del rum
la brocca Napoleon vuota
con la sua corte d’attorno
simulacro di fasti sognati
in tempi molto più in là
La pastorella e il suo uomo
che più raggiunger non possono
il sogno sul tetto lassù.
E il porcellino che ancora telefona
a ognuno la paura del lupo che ha
E ancora l’immobile gallo
nell’urlo di vetro del chicchirichì.
La ballerina su spillo
che esegue solerte la danza
al suono della povertà
L’orchestrina d’Oriente in conchiglia
che suona la muta armonia
gli immobili visi dei musici
inquietano chi sta più in là.
È l’uomo che tira il risciò
che striscia i suoi piedi su specchio
la diafana sua passeggera fissa
un punto per l’eternità
entrambi si sentono a casa
là sotto la pagoda teiera
del vecchio servizio da thè
E orde di elefanti con lunga proboscide alzata
proteggono ormai la tristezza del giorno che se ne và.
Vetuste bottiglie con tappi fermati in stagnola
che cantano in malasorte la loro verginità.
Ritratto di dama spagnola
cucita con nastri su carta
nascostasi dietro un ventaglio di legno
di stuzzicadenti ingialliti
Odor di rosolio scadente
marasche annegate nell’alcool
Toledo, le spade da olive
Ricami di pizzo sul lume
Le fiale dei fiori essicati, pendagli di fuochi lontani
Casette a traforo di vetro, con dentro confetti ammuffiti
e buste di auguri passati firmati da chi non c’è più
Castelli di carte incollati che lottano invano con cronos.
Richiusi l’anta e li condannai all’oblio.